La marca si rafforza dalla divisione e sceglie la propria community, ovvero la propria tribù. Intervista a Giampaolo Colletti

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«È la differenza che crea valore. E così l’inclusione diventa matrice nella gestione dell’impresa, ma anche tratto distintivo delle campagne di marketing, ha precisato la testata statunitense (New York Times, N.d.R.). Ecco la nuova fase dell’inclusion marketing, quella che crea valore dentro e fuori l’organizzazione e che proprio in questa settimana dedicata in tutto il mondo agli eventi del Pride trova la sua massima realizzazione». In questo articolo scritto per Il Sole 24 ore del 29 giugno dal titolo “Pack, orologi, lattine e jeans: l’era dei brand arcobaleno” si parla del motivo per cui le aziende hanno scommesso sulla comunità Lgbt. Il marketing secondo Lei, in questo caso, può aiutare a smontare gli stereotipi? Che rischi ci sono?

Oggi il marketing ha una funzione anche sociale oltre che di vendita di prodotti e servizi: quindi ha una missione molto più ampia. Fabio Ventoruzzo di Reputation Institute, intervistato qyualche mese fa, mi ha ricordato come oggi per il brand il silenzio non sia più un’opzione. Quindi la marca interviene nel dibattito, dice la propria, prende posizione e riesce anche a smontare luoghi comuni intervenendo in quelle questioni legate ai temi di diversità e inclusione. Si tratta di un modello molto diverso per esempio da quello tecnologico della Silicon Valley. Sempre il New York Times, pochi mesi fa, ha dichiarato che in USA è stata messa al bando la generazione bro-culture. Si tratta della generazione fatta dagli startupper che hanno aperto le grandi aziende come hi-tech e che in qualche modo è prevalentemente maschilista: bro-colture è come la cultura da ragazzotti,da compagni di viaggio, declinata solo al maschile. Oggi, invece, le aziende di successo scommettono sull’inclusione e la raccontano. Quindi non ci sono soltanto azioni concrete come monitoraggio e misurazioni, ma anche proprio campagne dedicate. Quest’anno è stato un po’ l’apoteosi di questo racconto perché il brand ha deciso di prendere posizione e aggiungo una cosa: anche se sono tematiche divisive, la marca si rafforza dalla divisione e sceglie la propria community, ovvero la propria tribù.  Pochi giorni fa Diesel ha deciso, per esempio, di fare un messaggio per dire che durante il Gay Pride ha perso alcuni followers dai propri canali social, ma ne è anche orgogliosa perché ha deciso di parlare soltanto alla propria tribù fatta di inclusione di accettazione.

Come mai secondo Lei, nel 2019 stiamo ancora affrontando una comunicazione con pubblicità improntate ancora sul maschilismo? Qual è il problema alla radice?

Il problema è che è una concezione della figura maschile e della sua estetica molto legata a stereotipi anni ‘70 e ‘80. Pochi mesi fa ad esempio un brand come Gillette della Procter & Gamble, ha lanciato un cambiamento radicale rispetto al modello “dell’uomo che non deve chiedere mai”, quella che il The Guardian aveva definito “mascolinità tossica”, proprio perché legato a una concezione del passato. Oggi, riuscire a dialogare con un pubblico più sensibile a questo tema, fa sì che questa narrazione non funzioni più e quindi oggi molti cercano di posizionarsi su altri temi perché si intercetta una fetta di business più interessante.

Nello stesso articolo, Lei commenta un’affermazione di Stefania Borghini, professoressa di marketing e direttrice della laurea magistrale in marketing management all’Università Bocconi: «D’altronde negli anni della personalizzazione della marca le persone comprano anche i valori del brand, oltre ai prodotti e ai servizi», definendola una scelta coraggiosa che porta risultati positivi a medio e lungo termine. Perché secondo Lei le aziende che scelgono di schierarsi, hanno una marcia in più? E chi non si esprime, cosa perde?

Le aziende lo fanno perché cercano di intercettare quelli che sono i consumatori del domani, quindi parliamo Generazione Z, la fascia a cavallo dei vent’anni di età.

Tutti gli indicatori e tutte le ricerche di mercato ci raccontano come sia la fascia più sensibile a una marca che non è soltanto un prodotto o un servizio ma anche un’esperienza di valore, di posizionamento: scelgo un prodotto per la storia che racconta e questo è molto coerente con lo storytelling di oggi.

Dave Kerpen, columnist del New York Times, ci dice che nel tempo noi racconteremo la marca, i prodotti e i servizi attraverso le storie che ci coinvolgono. Perché la marca fa questo? Per intercettare soprattutto i consumatori del domani. In America questi consumatori del domani, fra tre anni, saranno il 40% degli acquirenti soltanto nel mercato statunitense e quindi è anche una motivazione di interesse della marca a mantenere il proprio business.

Quale plus rappresenta l’elemento vincente della brand identity consentendo al prodotto di essere sempre riconoscibile e di fare la differenza rispetto al competitor?

Oggi, per brand identity intendiamo l’estetica, le icone, il posizionamento formale ma anche i valori e il posizionamento sostanziale, quindi tutta la visione.

Oggi c’è un termine molto ricorrente che è il purpose, ovvero la ragion d’essere della marca. Oggi una marca che lavora per modelli distintivi e quindi per riuscire a farsi notare rispetto a un mercato molto più complesso, fa la differenza.

Noi siamo sempre più armati di smartphone e siamo connessi, ma siamo anche distratti pur essendo consapevoli perché abbiamo una pluralità di opzioni, una pluralità di scelte. Ecco che allora lavorare per differenze fa sì che posiziona la marca in termini di valori e quindi su ambiti che si distinguono e fanno un po’ la differenza. Ecco perché anche alcune tematiche per esempio sull’ambiente, sul climate change, oggi vengono interpretate dalle marche in maniera un po’ più analitica e non in maniera indistinta.

Ecco che la marca tende un po’ a sviluppare una propria narrazione: parliamo di un vero e proprio storytelling.

Tre aziende che hanno un posizionamento di marca ideale. In questi termini, ci sono aziende che hanno fatto un vero e proprio salto di qualità in quest’ultimo periodo?

Ce ne sarebbero tantissime. L’azienda oggi più iconica come posizionamento è senza dubbio la Nike per i testimonial che adotta, che sono vicini al vissuto delle persone e anche testimonial controcorrente come Serena Williams, come il giocatore di football Colin Kaepernick che ha fatto scalpore nella campagna dello scorso anno.
Altro brand interessante con un progetto di valore è Volvo. Volvo ha aperto i propri centri di ricerca affinché anche altre aziende competitor possano rafforzarsi dalle ricerche legate alla sicurezza stradale e ha deciso per esempio di testare in termini di inclusion facendo i crash test su manichini donne e non più soltanto uomo, che era lo stereotipo di qualche anno fa, quindi un’attenzione particolare.
Il terzo è un brand tedesco legato alla birra, la Beck’s. La Beck’s utilizza come relazione con il consumatore, la piattaforma di Whatsapp che diventa una narrazione a fumetti. Quindi il dialogo che c’è su Whatsapp con i propri consumatori, con la propria tribù, viene visualizzato attraverso un’app che si chiama “BECK’S Heroes of the night” e diventa un racconto iconizzato, fumettato, di una serata per esempio con gli amici e questo in termini proprio di una relazione empatica con il cliente.
Un’azienda italiana? Penso all’operazione di inclusione che ha fatto la Barilla, che ha fatto ridisegnare ad Olimpia Zagnoli, fumettista molto conosciuta, il pack “Spaghetti n.5” con due donne che si baciano. Ricordiamoci che Barilla sei anni fa era stata protagonista di una clamorosa uscita del suo amministratore delegato Pietro Barilla sul tema delle famiglie gay e tradizionali. Rimettersi in discussione e riposizionarsi: oggi è un’impresa coraggiosa fa questo e così diventa nel tempo un’impresa di successo.

Oggi le persone usano i social con finalità articolate e differenti. Cosa ne pensa di coloro che vedono i social come il mezzo più efficace per fare marketing? Qual è il limite dei social?

Il limite dei social è che non sono piattaforme proprie, tutti quelli che li utilizzano non sono altro che ospiti in casa di altri. Il brand questo lo ha capito, tant’è vero che alcuni hanno deciso di fare un passo indietro. Penso al brand di beauty naturale Lush, ma penso anche a Unicredit, che dal 1° aprile ha cancellato i propri canali social. Diciamo che sono canali di relazione molto complessi che vanno gestiti, conosciuti, con un linguaggio specifico e soprattutto vanno presidiati. Io credo che oggi siano imprescindibili e debbano essere integrati in una campagna di marketing efficace: cioè, accanto ai social bisogna strutturare qualcos’altro. Oggi vanno molto le esperienze “onlife”, l’offline che nasce dall’online, ovvero utilizzare come cassa di risonanza il social come narrazione social però realizzare anche incontri fisici di riferimento con la propria community.

Il segreto? Animare sempre la propria tribù.

Chi è Giampaolo Colletti
Giornalista e manager d’azienda, collaboratore del Sole24Ore sui temi di marketing, social media, innovazione. Giampaolo è anche editor at large per StartupItalia ed è curatore dello StartupItalia Open Summit. Nel 2010 ha fondato la community dei wwworkers, che ogni anno si incontra alla Camera dei Deputati per dibattere dei temi di lavoro e innovazione.

http://www.giampaolocolletti.com

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